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"Una psicologia medica cattolica deve essere una vera sintesi delle verità contenute nei sistemi già esistenti e inaccettabili visto il loro spirito di materialismo puro e le verità della filosofia e la teologia cattolica. Questo lavoro di sintesi non può essere compiuto che da persone istruite e nella medicina o psicologia e nella filosofia, e che possiedono una esperienza pratica e personale assai grande: cioè questo lavoro deve essere fatto da medici, specialisti di psichiatria, dunque da scienziati cattolici laici. (Rudolf Allers, 1936, lettera a P. Agostino Gemelli).

domenica 26 settembre 2010

LA LIBERAZIONE DEL GIGANTE - SAN TOMMASO, PASSIONI, HABITUS E PSICOLOGIA CONTEMPORANEA



Con questo titolo Luis de Wohl, uno dei più importanti esponenti del romanzo storico, dava inizio alla narrazione della vita di Tommaso d’Aquino, monaco domenicano, filosofo e Santo, la cui missione, nell’appassionante contesto del milletrecento, fu di introdurre nel pensiero cristiano le intuizioni filosofiche del “gigante” dell’epoca classica, Aristotele, “liberandolo” così dalle interpretazioni degli arabi (Averroè in primis). Lo stesso titolo potrebbe esser dato al libro di Antonino Stagnitta, “La fondazione medievale della psicologia”, che specularmente introduce il pensiero del grande Santo all’interno della psicologia moderna, liberandolo dalla prigione in cui il pensiero moderno incatena e ripudia i pensatori medioevali ed il medioevo stesso. Per compiere tale viaggio l’autore mette sin da subito in dubbio la ricostruzione moderna del medioevo come epoca oscura – in questo ci ricorda altri contemporanei, come Rodney Stark, Franco Nembrini, Luigi Negri, ecc. - in verità momento storico culturalmente floridissimo: “Arabi, Ebrei e Bizantini avevano fatto del Mediterraneo un ambito del sapere che non ha similitudini nella storia dell’umanità. Là sono nate le ragioni della matematica moderna, i segni della medicina, le opere dell’arte e della letteratura mondiale, le premesse culturali e semantiche della fisica post-aristotelica e quindi della cosmologia e della scienza moderna in generale” (pag. 12). “Il mio proposito – dice l’autore - è di indicare come un grande e complesso sistema filosofico e teologico, quale quello di Tommaso D’Aquino, pur essendosi sviluppato nel secolo XIII e in contesti culturali e scientifici molto lontani dai nostri, possa aver prodotto ed elaborato teorie e dottrine così aperte da trovare risconto anche in raffinate opere scientifiche contemporanee” (pag. 15). Una posizione che contrasta l’idea secondo cui la scienza - e con essa tutta la modernità - sia nata unicamente sulle spalle dei giganti del seicento: “il moderno non è sorto dal nulla” (pag. 12) e “del resto il Gilson nell’ormai classico Index scolastico-cartèsien ha fatto vedere chiaramente il «ruolo che il pensiero medioevale ha avuto nella formazione del sistema cartesiano» e quindi di tutta la filosofia moderna e contemporanea che in esso, si afferma, hanno avuto la matrice” (pag. 19). Stagnitta non si limita ad un discorso specifico sulla psicologia medievale, ma abbraccia un confronto a tutto campo con il pensiero contemporaneo: ricorrenti, infatti, saranno le citazioni da alcuni classici della psicologia, come il Bugenthal per la corrente umanistica, il Dollard per la psicoanalisi, il Delay-Pichot per la psicologia generale ed il Lewin per quella sociale, così come ricorrenti saranno le critiche a Popper, agli psicologi comportamentisti ed ai teorici marxisti della teologia della liberazione. “Cosa vuol dire ciò? Vuol dire una cosa molto importante che bisogna tener sempre presente nella rilettura dei medioevali. Ogni sistema di pensiero ha un suo itinerario obbligato e un suo proprio sviluppo: portato avanti con coerenza e tenacia scientifica non potrà non produrre copiosi frutti di sapere. Se il sistema della psicologia tomista fosse stato portato avanti col coraggio e il rigore della ricerca scientifica e metodologica che San Tommaso ha prodotto, allora forse oggi avremmo avuto una conoscenza più autentica della realtà umana. Oggi le psicologie accademiche di orientamento meccanomorfico e comportamentista tentano, con invenzioni di risibili leggende e miti di tipo pseudo-platonico, di integrare le tesi evoluzionistiche con quelle materialistico-dialettiche relative alla storicità della cultura: i risultati sono a tutti noti. Non salvano i drogati, non aiutano i disperati, non formano uomini forti, non comprendono il senso dell’autodistruzione e della morte, non capiscono per nulla questo mondo che va sempre più per cammini disumani. La psicologia è ferma alla conoscenza del mondo animale. Si attende l’apporto cristiano. San Tommaso potrà diventare il precettore preferito, ma ha bisogno di discepoli di buona volontà «et in studio assidui»” (pag. 47).

Il primo, lungo, capitolo è dedicato alle passioni dell’uomo. Premessa a tale indagine è l’assunto di Tommaso d’Aquino secondo cui “la persona umana è sentesi anima-corpo in unicità consustanziale” (pag. 27), concetto riassunto dall’aquinate con i concetti aristotelici di potenza ed atto, forma e materia: “l’anima forma del corpo” (pag. 27). Il pensiero dualista che Tommaso affrontò nel trecento nelle avvincenti dispute teologiche parigine è ripreso e riproposto dall’autore in chiave moderna, contro il pensiero di Popper in primis, e sul terreno delle passioni: “[…] per Tommaso d’Aquino la passione è atto tipicamente umano, l’espressione più interessante dell’interazione mente-corpo” (pag. 26). “Allora, cosa è la passione? San Tommaso accetta in tutto la teoria aristotelica secondo il significato della parola «pathos-patire»: essa è un’alterazione, e in quanto tale può essere anche patologica, subita dall’anima e coinvolgente tutto l’essere dell’uomo in quanto è il composto che patisce acquisendo o perdendo qualcosa come forma psicologica precedente” (pag. 46). Riprendiamo questa definizione. “Il termine «passione», come si sa, è la traslitterazione latina del greco «pathos» (perturbazione dell’anima). Esso assume però un preciso significato in filosofia allorquando Aristotele, che riepiloga tutto ciò che si era detto prima di lui, nella Metafisica esamina i modi contrapposti di «potenza» e «atto». Originariamente viene designata col termine «passione» la categoria logico-metafisica dell’essere correlativa ad «azione», per cui la sua preistoria ci riporta alla metafisica. […] Il significato psicologico del termine «passione» scaturisce secondariamente, per associazione a detto concetto metafisico. Esso indica semplicemente potenzialità, che se attiva, significa attitudine e possibilità di agire; se passiva designa proprio la recettività dell’essere sotto l’influsso di una causa agente” (pag. 30). “[…] Nel caso della passione in senso psicologico è il corpo umano che subisce (patisce) l’alterazione (trasmutatio corporalis). Ma il corpo umano è tale perché l’anima ne è la forma, l’atto dell’essere tale, cioè umano, ed è ad essa indissolubilmente ed essenzialmente unito. Perciò ogni alterazione del corpo ridonda nell’anima e viceversa. Allora è improprio dire «le passioni dell’anima», ma «le passioni dell’uomo»: composto di materia e forma, corpo e anima” (pag. 31). “Si tratta evidentemente di un discorso in cui San Tommaso ci tiene a sottolineare che l’alterazione «può essere detta anche dell’anima in quanto essa patisce e subisce qualcosa, e la sua operazione viene impedita»; «è attratta altrove verso il suo agente che la fa recedere da ciò che le è conveniente»”(pag. 46). “Dal punto di vista psicologico, dunque, il termine passione designa un traboccamento di stimoli corporali (trasmutatio corporalis) sull’attività psichica dell’anima che viene tirata fuori da se stessa e consociata più strettamente al corpo. E ciò accade per una causa estrinseca che produce proprio alterazioni e patologie fisiologiche” (pag. 31). Detto in altri termini: “le passioni insorgono nell’uomo per cause estrinseche che stimolano e producono alterazioni fisiologiche e organiche con ridondanze sull’anima. In questo campo la biologia è preminente” (pag. 32). A prima vista sembrerebbe, dunque, che la parte più umana dell’uomo, ossia l’intelletto, la ragione, la sua capacità conoscitiva, non sia implicata nel fenomeno passionale, e che esse sottomettano l’uomo ad una dinamica istintiva, di animalità: “[…] nell’insorgere delle passioni non c’entra né la conoscenza né la volontà, perché l’una le percepisce solo quando sono già sorte, e l’altra non sempre riesce a dominarle nel loro sorgere e nelle loro manifestazioni” (pag. 33). In realtà “San Tommaso, confortato da Aristotele, Agostino, Damasceno e dallo pseudo-Gregorio, collocando il trattato delle passioni nel più ampio panorama delle azioni finalizzate […] dichiara apertamente che anche l’atto delle passioni, pur essendo comune agli animali, in quanto diventa finalizzato, è volontario” (pag. 37). Le passioni vengono governate, amministrate dalla ragione che le orienta verso il fine da lei scelto. In questo modo si esce dal terreno della solo biologia e si entra in quello dell’etica, cioè dell’umanità. “Di fatto la gran parte dell’etica comportamentale, tendente al bene, sta proprio nel dominare e convogliare queste enormi energie psichiche verso il bene e la fruizione della felicità. E ciò avviene quando, con l’imperativo politico della ragione, si riesce a stabilizzarle (habitus-virtù) e convogliarle, appunto verso il bene” (pag. 38). “Questo convogliare il proprio comportamento verso il fine della felicità ultima è costituito dagli atti liberi e volontari che perciò si dicono umani” (pag. 38). La ragione e la volontà “dirigono le medesime passioni non proprio con imperativi dispotici a cui non possono resistere, ma con un potere «politico» (principatu politico) che lascia ad esse una certa libertà di movimento, come avviene «nel governo dei figli che posseggono, per alcune cose, la propria volontà»” (pag. 58). “Secondo San Tommaso le passioni dell’uomo sono undici, e si dividono in due grandi gruppi coordinati. Le passioni del concupiscibile o del desiderio che sono la matrice di tutte le passioni attraverso l’amor iniziale tendente alla gioia e al gaudio. E le passioni dell’irascibile che scaturiscono dalle prime e in esse si placano. […] Tutte le passioni del desiderio (concupiscibilis) del bene in assoluto sono tendenze o pulsioni verso di esso: l’amore, il desiderio, il gaudio o piacere e gioia (della fruizione); e, al contrario, le passioni riguardanti il male: l’odio, la fuga o abominio, la tristezza o frustrazione del bene non conseguito. Similmente avviene per le passioni dell’irascibile «il cui oggetto non è il bene o il male in assoluto ma sotto l’aspetto della difficoltà o arditezza nel conseguirlo». Così abbiamo le passioni della speranza, dell’audacia e dell’ira, che non ha il contrario, mentre la disperazione e il timore scaturiscono dall’impossibilità di raggiungere il bene desiderato” (pag. 39). Se dunque “[…] le potenze irascibili e concupiscibili obbediscono alla ragione […] ne deriva che il loro atto tipico è la scelta (electio) che è atto della volontà, che, se stabilizzata nel bene, è virtù, nel male è vizio. Essa è preceduta dalla deliberazione dinanzi alla concretezza della situazione. Tutto ciò presuppone la libertà e, quindi, come soggetto operatore radicale, la ragione. «Il principale atto della virtù etica è la scelta che è atto dell’appetito razionale o volontà»” (pag. 53). C’è però una precisazione: “le passioni non sono soggetto di virtù per la loro subordinazione totale ed estrinseca alla ragione […] ma per la compenetrazione ontologica (forma) dello spirito nella sensibilità” (pag. 61). “«[…] Così se l’appetito sensibile subordinato (inferior) non è nella perfetta disponibilità di compartecipazione entitativa al dinamismo della ragione, la dinamica della sua propria azione sarà imperfetta; si attuerà infatti con qualche ripugnanza dell’appetito sensibile che perciò soffrirebbe tristezza e frustrazione per la violenza a cui è sottoposto. Ciò accade, per esempio, in chi esperimenta forti passioni di concupiscenza che non può pienamente realizzare per il dettame della ragione»” (pag. 61).

Il secondo – altrettanto lungo – capitolo è dedicato al dinamismo delle passioni, in particolare alla tristezza, che è la prima passione, dopo quella del piacere, affrontata dall’aquinate: “l’appetito inferiore, quando non è nella perfetta disponibilità a seguire l’imperativo della «ragione» e, quindi, è in conflitto con essa, entra ed esperimenta una «certa tristezza» quaedam tristizia, che significa proprio frustrazione. […] «Come accade in colui che reprime per motivi etico-razionali (anche per motivi clinici, dietetici, ecc.) (ratione prohibente) forti desideri di piacere (fortes concupiscientias) e da ciò ne deriva uno stato frustrante per la violenza appunto della repressione»” (pag. 70). Stagnitta propone una analogia tra il termine tristizia usato da Tommaso e “frustrazione” così come inteso dal Dollard: “con esso si vuole designare uno stato psico-fisiologico di insoddisfazione o delusione, irritazione e perplessità prodotto da un avvenimento interno o esterno alla persona. Esso impedisce, ostacola o interrompe il proseguimento di un atto tendente a soddisfare un bisogno” (pag. 65). Anche se più avanti precisa: “non che il termine tomasiano «tristezza» (tristizia) designi solo e sempre «frustrazione»” (pag. 67); “Cosa è infatti, per Tommaso, la tristezza? E’ una certa particolare forma di dolore causato da una percezione interiore” (pag. 73). “Un esempio moderno di passione (tristezza o frustrazione) con manifestazioni di eventi somatici (corporali trasmutatio) è il fenomeno patologico dell’anoressia o disgusto del cibo causato sovente da una esagerata repressione dietetica (ratione prohibente)” (pag. 70). L’autore ripercorre il concetto moderno di frustrazione primaria e secondaria, entrambe riscontrabili anche nell’opera di Tommaso: “è importante per noi solo constatare l’esistenza del concetto di «frustrazione primaria» causata dalla sofferenza per un male presente-bene assente” (pag. 72); “[…] il concetto di tristezza causata dal desiderio non soddisfatto è [invece] indicato in termini moderni come «frustrazione secondaria» (passiva e attiva, interna ed esterna). «Il desiderio stesso, considerato nella sua natura può essere talora causa del dolore. Infatti tutto ciò che impedisce a un moto di raggiungere il suo termine è contrario al moto medesimo. Ora tutto ciò che è contrario al moto dell’appetito, rattrista. E’ così che il desiderio diviene causa di tristezza, in quanto ci rattristiamo del differimento o della privazione di un bene desiderato». […] Un desiderio, quindi, che non è soddisfatto produce tristezza e frustrazione. Ci chiediamo: quando avviene che un desiderio non è soddisfatto? Avviene quando un ostacolo impedisce al «dinamismo dell’appetito sensitivo», alla passione, nel caso nostro al desiderio o concupiscenza come pulsione istintuale verso il bene, di pervenire al suo fine, cioè allo scopo del comportamento motivato. […] Dunque un desiderio non realizzato a causa di un evento che ritarda o che addirittura sopprime il bene-oggetto concupito e desiderato è causa di tristezza o frustrazione” (pag. 85). La frustrazione, quando giunge, ha degli effetti diretti sull’uomo nella sua totalità che, come più volte nel corso del libro l’autore ribadisce, è un composto di corpo e spirito: “[…] ciò che avviene nella sfera psichica si ripercuote in quella biologica e viceversa, come avviene nel piacere o dolore che quando attraggono attirando a sé le facoltà dello spirito impediscono la possibilità di ragionamento; per esempio, secondo Aristotele, le manifestazioni sessuali impediscono la riflessione della ragione. […] Perciò avviene che da conoscenze intellettive «shoccanti» si tramuta il corpo in caldo e freddo; a volte sino a guarire o a cadere ammalato e anche sino a morire: accade infatti che qualcuno muoia per la gioia o per il dolore, ma anche per amore. Da ciò deriva ugualmente che l’alterazione somatica si ripercuota nell’anima” (pag. 87). Un altro effetto della frustrazione è l’aggressività: “l’aggressività è sempre conseguenza di una frustrazione. Più precisamente, l’affermazione può essere espressa così: un comportamento aggressivo presuppone sempre uno stato di frustrazione e, inversamente, l’esistenza di una frustrazione conduce sempre a qualche forma di aggressività. Nella vita di ogni giorno sembra giustificato attribuire sempre il comportamento aggressivo, almeno nelle sue forme più comuni, a una qualche frustrazione. Non è però altrettanto evidente che a ogni frustrazione segua inevitabilmente un’aggressività di una qualche intensità. In molti adulti, e persino nei bambini, può avvenire che alla frustrazione segua tanto prontamente una apparente accettazione della situazione e un adattamento ad essa, che si cercherebbero invano quegli aspetti di una certa evidenza che sono ritenuti generalmente caratteristici di una reazione aggressiva” (pag. 91). San Tommaso individua anche tre “terapie” alla frustrazione: «[…] così quando gli uomini che sono in stato di tristezza o frustrazione scaricano all’esterno questa tensione con pianti e gemiti o con parole (verbo) essa diminuisce» […] «la contemplazione della verità sopisce la tristezza e il dolore (consolazione della filosofia) tanto più quanto uno ama la sapienza (…). E bisogna anche dire che (terza risposta) la gioia della contemplazione, cosa squisitamente intellettiva, riesce a mitigare anche il dolore sensibile»” (pag. 88). L’autore poi passa all’analisi di quattro forme particolari di tristezza: la misericordia, l’accidia, l’ansietà e angoscia, l’invidia. In realtà più che forme particolari queste quattro passioni possono intendersi come reazioni alla stessa frustrazione-tristezza: “dunque la misericordia non solo «è un profondo sentimento di pietà che spinge a soccorrere o perdonare le miserie altrui», ma può diventare anche uno status di valore dell’anima, cioè una virtù morale, qualora tale habitus sia sistematicamente controllato dalla ragione. Ma può anche degenerare «nell’angoscia esistenziale» quando non si vede alcuna possibilità di liberazione o scampo dinanzi al problema della vita e della morte»” (pag. 101). L’accidia è, invece, “una patologia della volontà: abulia, apatia, pigrizia, inerzia” (pag. 101) ma che colpisce anche la facoltà della ragione: “«l’accidia è come un torpore dell’intelligenza che negligè di fare il bene»” (pag. 102) dal momento che sopraggiunge come errore di interpretazione dei segni della realtà: “«[…] tale tristezza accidiosa è causata da un male apparente ma di fatto vero bene»” (pag. 102). L’ansietà è “una paura che sale dal subconscio per un male futuro che sorpassa le possibilità umane e a cui non si può resistere né può essere eluso”; mentre l’angoscia esistenziale, “che Tommaso chiamava semplicemente «angustia et agonia», era conosciuta solo come una degenerazione della passione della misericordia, quando, dinanzi al problema della vita e della morte, non si intravedeva alcun scampo” (pag. 104). Infine, per quanto riguarda l’invidia “San Tommaso, sulla scia del Damasceno, dice che «l’invidia è una specie di tristezza concernente i beni altrui» ed è «molto diffusa tra i bambini nei quali non è (perfetto) l’uso della ragione»” (pag. 105). “«[…] Avviene di scambiare a volte come proprio male il bene altrui. Ed è appunto in questo senso che si può avere tristezza invidiosa di ciò che è bene per gli altri»” (pag. 105). Un discorso a parte è dedicato al timore (o paura) e all’audacia. E’ l’occasione per ribadire che “[…] la passione propriamente detta non sorge da una conoscenza intellettiva dell’oggetto, ma da una non precisata e vaga «percezione appetitiva» di un oggetto pericoloso che provoca un disturbo somatico o una qualsiasi altra affezione biologica descrivibile in tutti i singoli casi passionali. Ora, questa vaga percezione appetitivi con la quale emerge la passione è molto simile al concetto di «subconscio»: essa non arriva a livello cosciente se non in modo indiretto e secondariamente, in quanto è il composto che subisce, e quindi va ricercata nel meccanismo dell’interazione” (pag. 110). “Il timore, allora, sarebbe un avvenimento passionale o comportamento pauroso che cerca di sfuggire a un male futuro grave e insuperabile per mezzo di una inconscia affezione corporea. Essa si manifesta anche come un disturbo periferico evidenziandosi come reazione ed evasione e fuga dal male” (pag. 110). “Sono sei le manifestazioni fisiologiche e psichiche di reazione al timore”: immobilità, pallore e rossore, vergogna, meraviglia, stupore che impedisce la riflessione, angoscia per la mancanza di alternative. L’audacia “è una passione dell’appetito irascibile, contraria al timore o paura […] è un prodotto della speranza, perché è audace chi spera di poter superare «un pericolo grave e immanente»” (pag. 115). Sia timore che audacia sono passioni che divengono virtù se sottoposte al controllo della ragione, vice versa divengono vizi: “«[…] per quanto riguarda l’anima, se la passione del timore è moderata e non «acceca» la ragione, essa può essere utile a un buon comportamento morale, perché produce una certa diligente premura e fa l’uomo più vigile a valutare attentamente la propria operatività e comportamento. Se invece la passione del timore è tanto irruente da “accecare” la ragione, allora impedisce anche l’attività dello spirito” (pag. 114). Interessante a questo punto la riflessione sulla psicoterapia: “la psicoterapia è, in fondo, l’intervento della ragione sulla ragione perché essa possa corroborarsi e trasformarsi in moderatrice eliminando la patologia” (pag. 117).

Il terzo ed ultimo capitolo è dedicato agli habitus. Per comprendere appieno ciò che intende Tommaso, Stagnitta antepone alcuni concetti di antropologia che permettono al lettore di comprendere un modo di vedere l’uomo – ahimé – perso nel tempo. Vi è un duplice dinamismo nell’interazione tra l’uomo, ed il suo “interno”, e la realtà “esterna”: “è la persona che è presa dalla realtà verso cui tende e dalla volontà che è «tendenza verso», perché è prima ancora del razionale. Il soggetto poi, appunto perché razionale, conosce il bene da cui è conquistato e attratto, e ricerca la felicità che è il «bene più prezioso» e dono divino»” (pag. 128). Cioè l’uomo è spinto antropologicamente alla ricerca della felicità, del bene, del bello. Quando lo incontra né è attratto. Ma è anche vero che è la ragione che riconosce le proprietà degli oggetti, e quindi influenza questo dinamismo di spinta ed attrazione. Il meccanismo al centro di questo movimento è la volontà: “[…] le passioni dell’uomo sono influenzate dalla volontà che le regola, «non con un imperativo categorico ma politico. Tuttavia le passioni dell’irascibile e del concupiscibile possono a loro volta resistere a tale imperativo perché il desiderio sensibile possiede la proprietà specifica per poterlo fare». Ma mentre la volontà muove l’appetito sensitivo nell’esercizio dell’azione, le passioni o appetito sensitivo (irascibile e concupiscibile) muovono la volontà in via di speicificazione, vale a dire presentando ad essa un bene particolare come oggetto appetibile” (pag. 130). “Conseguentemente la volontà nell’atto del volere è attratta (e offuscata) da quel bene che le viene presentato da una conoscenza particolare non considerando quello che le viene invece presentato dalla ragione universale. Ed è proprio questo il modo in cui le passioni influiscono sulla volontà” (pag. 131). Ricapitoliamo. La passione è una risposta del corpo ad un evento percepito dai sensi, che poi influenza anche la ragione e di conseguenza la volontà. A sua volta la volontà influenza le passioni, scegliendo ciò che indicano loro come bene appetibile – tramite i sensi – ed il giudizio della ragione. “L’interazione tra mondo esterno e mondo interiore, mediato dalle passioni istintuali e dall’influsso della razionalità, produce una «certa qualità» nelle potenze recettive della psiche che si chiama appunto abitudine. Tale qualità acquisita, o abitudine, difficilmente poi può essere rimossa per il fatto che diventa, in un certo senso, co-essenziale al soggetto agente. Diventa cioè qualità permanente psicofisica, quasi una seconda natura; e ciò che è connaturale, e quindi consolidato, non è facilmente amissibile” (pag. 141). “Secondo Tommaso d’Aquino, che in ciò segue Aristotele, [gli habitus] sono una disposizione o qualità permanente e stabile dell’anima. Tale stabilizzata proprietà psichica è prodotta dalla subordinazione durevole degli atti delle passioni all’influsso motorio della volontà e delle forze cognitive e intellettive (la ragione) che presentano l’oggetto o ragionano circa le conclusioni” (pag. 121). “Le potenze appetitive vengono determinate da quelle percettive, sensibili e razionali che presentano, come fine, l’oggetto appetibile. Si tratta però di un meccanismo psicofisiologico bifronte e dinamicamente complesso: il soggetto agente possiede un principio attivo e uno recettivo come è evidente nelle azioni umane. Chi agisce è mosso da qualcosa (oggetto-fine) e, sotto questo aspetto, manifesta una recettività. E’ proprio in questa «passività recettiva» del soggetto agente che si realizza e si radica «la qualità permanente» chiamata a ricevere l’influsso della ragione, del mondo dei fini e degli oggetti da essa mediati e ad acconsentire ad esso (influsso) in modo permanente e abituale, se presa nella sua dinamicità” (pag. 143). “[…] il principio attivo è concepito come causalità di un agente che si muove perché mosso (da qualcosa), mentre il passivo è la recettività dinamica del medesimo, cioè la risposta razionale e comportamentale di un individuo a uno stimolo che lo fa reagire dopo essere stato stimolato” (pag. 148). Infine le ultime pagine sono dedicate allo studio delle virtù cardinali come habitus etici, al cui centro c’è la prudenza: “[…] per umanizzare le passioni del concupiscibile, dominarle e renderle stabili nella medierà, interviene la ragione-volontà che, scegliendo i mezzi opportuni, regola rettamente il comportamento umano verso il fine e realizza anzitutto la virtù della prudenza. Questa consiste nella corretta e saggia oculatezza e retto discernimento delle cose da fare in vista del conseguimento del fine-bene: da essa infatti dipendono tutte le virtù morali che sono connesse tra di loro” (pag. 166).

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