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"Una psicologia medica cattolica deve essere una vera sintesi delle verità contenute nei sistemi già esistenti e inaccettabili visto il loro spirito di materialismo puro e le verità della filosofia e la teologia cattolica. Questo lavoro di sintesi non può essere compiuto che da persone istruite e nella medicina o psicologia e nella filosofia, e che possiedono una esperienza pratica e personale assai grande: cioè questo lavoro deve essere fatto da medici, specialisti di psichiatria, dunque da scienziati cattolici laici. (Rudolf Allers, 1936, lettera a P. Agostino Gemelli).

giovedì 15 settembre 2016

LA CURA AL CONFINE - SEVESO 27-29 OTTOBRE 2016



Dal 27 al 29 Ottobre prossimi si svolgerà a Seveso il convegno degli Operatori Psicosociali dell'Associazione Medicina e Persona, in collaborazione con la Diocesi di Milano. Due anni fa, il precedente convegno ha ospitato il professor Martin F. Echavarria nella sessione di apertura (abbiamo pubblicato sul blog il suo intervento: "Soggetto umano e dimensione antropologica"). Il convegno di quest'anno si annuncia particolarmente interessante per due motivi. Il primo è il tema principale, che vuole riflettere sul "confine" che esiste tra il guaribile e l'inguaribile: il medico e lo psicoterapeuta è chiamato a prendersi cura solo degli aspetti guaribili, secondo una visione medicalista della restitutio ad integrum, oppure anche del fatto che vi sono condizioni inguaribili o che, pur guarendo, lasciano una traccia? Ovvero che esiste una "domanda di salvezza dentro la richiesta della salute", come ebbe a sintetizzare il Cardinale Angelo Scola che chiuderà proprio i lavori del convegno. Il secondo motivo consiste nel fatto che, come due anni fa, anche l'ambito della psicologia cattolica ha un suo spazio specifico, in particolare una sessione dal titolo: "Speranza e domanda di senso: il senso religioso nella cura e nella psicoterapia". L'obiettivo è di mettere a tema come il senso religioso interviene nell'ambito della terapia e, quindi, in che modo lo psicoterapeuta - sulla base di una sana antropologia preventivamente formulata - interviene nella prassi. Ospiti relatori il dot. Domenico Bellantoni, psicoterapeuta, e il dot. Carlo Alfredo Clerici, psichiatra. L'invito rivolto a tutti è di iscriversi e di partecipare! Di seguito il razionale del convegno e la sintesi della sessione. Iscrizioni. Brochure. Programma relazioni. Sessioni parallele.


Razionale 

Una traiettoria di lavoro, sviluppata negli anni da operatori psico-sociali e aperta ai fattori umani della cura nelle diverse professioni sanitarie e nelle molteplici esperienze sul campo, si confronta con la fragilità, la crisi morale, i cambiamenti culturali di una generazione, i bisogni tuttora diffusi nella popolazione per riscoprire il senso e i modi del curare .
Vi è oggi una tendenza forte alla ricerca del benessere, che si identifica con quell’attenzione alla propria salute quanto mai diffusa e promossa nella cultura attuale che non di rado si materializza nel culto del corpo in senso igienistico o estetico ed è centrata sul rapporto con se stessi. Il che favorisce atteggiamenti individualistici e ripiegamenti narcisistici (a volte persino riconoscibili in espressioni sintomatiche), alimentando aspettative crescenti quando non impossibili. Il rischio è coltivare una sorta di illusione onnipotente, la continua ricerca di una posizione impossibile, quella incombente aspettativa di un “mondo perfetto” che denota l’attuale “incapacità di fare amicizia con l’imperfezione delle cose umane” (Ratzinger, 1986).
Cultura, confine, corpo, rapporto: parole che aprono a una prospettiva più ampia e a un’ipotesi opposta: che il legame tra una vita buona e la cura stia in una relazione, in una domanda. La cura implica che uno si muova e si rivolga a un altro stabilendo una relazione di cura, che di norma si svolge nel tempo e spesso sconfina tra corpo e mente. Sono coinvolti dei soggetti. Persone che incontrano sofferenza e malattia e si confrontano con la condizione umana sottesa: il timore di non poter guarire, di un’improbabile restitutio ad integrum, tra speranza di guarigione e rifiuto del cambiamento, tra fiducia nella cura e resistenze. Gli operatori nel prendersi/aver cura dell’altro sfidano il rischio di affrontare tutto questo, che comprende lo “scarto” implicito nell’esperienza umana del dolore o del limite inaccettabile e insieme del desiderio di durare per sempre.
L’uomo quindi, provocato dalla malattia, si pone il problema del senso e, mentre cerca di ritrovare il benessere, domanda di essere accolto in una relazione di cura. Qui il curante lo incontra e, a sua volta, si domanda come può occuparsi positivamente di quella persona. E anche se può farlo in un ambito di libertà. Come tener conto di tutta la complessità di motivazioni e condizioni presenti in entrambi i soggetti, curati e curanti, chiamati a condividere nel bisogno il senso? È possibile non lasciare nell’intenzionale e nelle dichiarazioni di principio la ricerca di una posizione critica, adeguata al desiderio di curare, tanto più all’interno di una cultura dominante come l’attuale piena di regole ma relativista, medicalizzata ma ambivalente rispetto alla cura?
Il pensiero corre ai molti problemi sul tappeto comuni ai vari ambiti della medicina, dall’eccesso di indagini diagnostiche all’estensione delle cure che va dai trattamenti estetici alla grave disabilità, alla demenza, alla cronicità residua dopo la riabilitazione, fino all’evoluzione cronica delle malattie divenuta normalità. Come non scartare chi è nel bisogno, saper assistere, valorizzare le esperienze, incontrare le persone e la famiglia? Francesco (2015) considera proprio questo “il tempo del ritorno all’essenziale per farci carico delle debolezze e delle difficoltà”.
Infatti, se oggi è necessaria una riflessione non superficiale su cosa vuol dire curare, altrettanto si impone l’esigenza di strumentare le sue possibili modalità attuative nei diversi contesti, età, ambiti di lavoro, resistendo ai rischi di abbandono della clinica. In altre parole, il dono, l’offerta di un “primo passo, non privo di rischio, che costruisce le relazioni personali” (A. Scola, 2015) può rappresentare l’inizio sempre rinnovato del percorso della cura, che certo richiede esemplificazioni di metodologie ed esperienze che ne promuovano la continuità e l’efficacia nella pratica.
Obiettivo del Convegno dunque è di ridefinire le relazioni di cura e di aiuto all’interno delle diverse pratiche di salute - psico-sociali e non solo - e di focalizzare le caratteristiche che facciano della cura un’azione legittima e richiesta al servizio delle persone e delle relazioni nel contesto della società attuale, offrendo punti di riferimento imperfetti ma utili a orientare l’intervento degli operatori, dei soggetti sociali, della comunità e delle sue istituzioni.

Speranza e domanda di senso: il senso religioso nella cura e nella psicoterapia


Interventi di D. Bellantoni, C. A. Clerici 
Coordinamento: S. Parenti, A. Emolumento                                 

Il rapporto tra la psicologia e il cristianesimo è divenuto problematico con la modernità. «Anche se poche volte viene riconosciuto in maniera esplicita, dietro ogni psicologia c’è una concezione dell’uomo che non è di ordine prettamente empirico-scientifica, ma filosofica», ha ribadito il Professor Martin Echavarria all’ultimo convegno. Il Professore ha citato un importante brano di San Giovanni Paolo II, che aggiunge: «La visione antropologica da cui muovono numerose correnti nel campo delle scienze psicologiche del tempo moderno è decisamente, nel suo insieme, inconciliabile con gli elementi essenziali dell’antropologia cristiana». Come cattolici impegnati nella psicoterapia sentiamo dunque l’esigenza di una psicologia, teorica e pratica, che affondi le proprie radici nell’antropologia cristiana e non in altre concezioni. Vogliamo evitare il rischio di una scissione: da una parte l’adesione formale alla vita di fede – attraverso la comunione fraterna, l’accostamento ai Sacramenti, la preghiera, ecc. – e dall’altra l’adozione di concezioni e strumenti estranei (se non opposti) a quella stessa vita.

Abbiamo così deciso di riscoprire i fondamenti della concezione cristiana dell’uomo addentrandoci nella proposta educativa di don Giussani il quale, coniugando l’antropologia tomista con gli accenti della modernità, ha posto in evidenza: il primato della realtà sulle preconcezioni soggettive (realismo vs. razionalismo); il desiderio di felicità insito nell’uomo (cuore e teleologia); la ragione e il giusto rapporto con l’emotività (moralità); l’esperienza come luogo di riconoscimento della verità (oggettività vs. soggettività). Giussani suggerisce che il senso religioso sia la forma secondo cui gl’interrogativi sul significato delle cose diventano esistenziali, cioè divengono compiutamente domanda di felicità. Essa è insita nell’uomo originalmente, ma viene provocata e suscitata dall’impatto col reale, che spesso sembra non rispondere, o persino negare, la possibilità di una piena soddisfazione. I limiti della realtà – l’impossibile da modificare – avviano prepotentemente le domande del senso religioso. Ci siamo così resi conto che ogni domanda di cura racchiude una domanda di senso o di salvezza, come dice il Cardinale Scola. Ci sembra che una clinica fondata sul senso religioso – e non solamente sulla ricerca del benessere, o del potenziamento, o della ristrutturazione, ecc. – attui nella prassi le premesse teoriche di una sana antropologia ed al contempo ricucia la frattura tra la psicologia e la vita di fede.

Il tema della speranza e della domanda di senso religioso nella cura assume grande interesse anche rispetto al punto di osservazione dei cappellani ospedalieri, come dimostra la ricerca condotta all’Istituto Nazionale Tumori di Milano da don Tullio Proserpio. Lo studio evidenzia una correlazione determinante tra speranza e qualità della vita e della cura in un contesto oncologico, mostrando un nesso non sempre evidente: dalla ricerca emerge infatti che, oltre alla componente clinica, psicologica e sociale, anche quella religiosa e spirituale assume un ruolo cruciale nella configurazione della speranza come fattore determinante tanto nella relazione con i caregivers, quanto nella tenuta delle relazioni affettive, quanto nel miglioramento complessivo dell’efficacia di quella cura.

Come emerge il senso religioso in terapia? In che modo accedere ed intervenire a tale livello nell’ambito professionale? Quali modifiche produce all’abituale modus operandi col paziente?

In che modo fattori extraclinici come la dimensione spirituale o, più esplicitamente, la fede e la preghiera alimentano la speranza e interagiscono con il percorso delle cure del paziente?

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